Quando il sesso fa male

Centro Sessuologia Gestalt • Oct 07, 2023

VAGINISMO E PENEPATIA

di Barbara Bellini 

Il corrispondente maschile del vaginismo viene normalmente definito col termine generico di penepatia, che include anche fenomeni come il priapismo ed il pene ricurvo. Se parliamo del solo fenomeno dell’erezione dolorosa, ritroviamo una dinamica molto simile sia nell’uomo che nella donna, cioè una contrazione del perineo e dei muscoli della vagina nella donna e dei corpi cavernosi del pene nell’uomo che si oppongono alla dilatazione nella prima e all’erezione nel secondo. Mentre per il vaginismo la componente psicologica è ormai quasi universalmente accettata, il dolore erettile dell’uomo viene quasi sempre riportato a cause organiche e più raramente gli uomini vengono in terapia per questo motivo.
Se in tutti i disturbi sessuali vediamo un vissuto di alienazione dai propri genitali, nel vaginismo e nel dolore erettile questa alienazione diventa massima. La persona è totalmente inconsapevole di opporsi a qualcosa che sta dicendo di voler fare. Nei vari tipi di impotenze e di orgasmi/eiaculazioni precoci assistiamo spesso ad una sorta di manipolazione del vissuto genitale, mentre in questa sofferenza l’opposizione è netta e violenta: una violenza, tuttavia, totalmente alienata. 
Frequentemente le donne manifestano vissuti di rabbia, verso se stesse quando il vaginismo è tale da impedire completamente la penetrazione verso il compagno quando la contrazione rende il rapporto doloroso. In questo caso la rabbia è verso il partner che insiste per avere ugualmente il rapporto. 
Nell’uomo la dinamica è simile. La rabbia è in genere rivolta verso di sé, ma spesso anche nei confronti del/la partner, accusat* di non essere sufficientemente delicat*.
L’identificazione con la propria rabbia è una tappa spesso fondamentale per il lavoro con il vaginismo e il dolore erettile.
La rabbia è frequentemente portata in modo reattivo nelle sedute ed il/la terapeuta facilmente si trova ad essere accusato di non capire il vissuto della persona. Risulta particolarmente difficile sostenere la persona ad assumersi la responsabilità del fenomeno poiché l’alienazione è totale. Il/la professionista deve essere pront* ad avere momenti di confronto molto “caldi”. È importante arrivare a costruire un clima di forte intimità e sicurezza prima che la persona accetti di guardare alla propria sofferenza come un’alleata e non come una nemica e lo stesso vale per il rapporto con il/la professionista.
Per la persona è impossibile riuscire a sentire la propria forza nel rilassare.
La maggior parte di noi eurocentrici, condivide un introietto culturale che la forza risieda nella contrazione, nella durezza, nella violenza. Poche donne affermerebbero di sperimentare la forza della loro vagina nel rilassarne i muscoli e nel “prendere” il pene o le dita o un oggetto. La maggior parte riferiscono al massimo l’esperienza di aprirsi ad accogliere. Eppure noi rilassiamo i muscoli della mandibola per aprire la bocca e addentare, afferrare, succhiare il cibo. Solo i bambini piccoli e i gravi disabili vengono in-boccati.
Nel vaginismo la donna contrae i muscoli della vagina come se dovesse proteggersi da uno stupro, che però non riconosce come tale, e se il rapporto avviene lo stesso le conseguenze sono simili. Con l’uomo non si pensa mai alla paura di essere stuprato, se non nell’ano, perché lo stupro è verso una cavità, verso chi non vuole accogliere. Ma il significato della parola stupro non è legato alla penetrazione. Stupro indica offesa, costrizione, percosse, violenza. Perls sosteneva che spesso la masturbazione maschile si traduce in uno stupro del pene da parte della mano. Non è il pene, sono le mani che stuprano, che percuotono, bloccano, costringono. 
Sia nel vaginismo che nel dolore erettile, la persona vive il contatto genitale con l’altro con la paura del dolore, della costrizione, della mancanza di cura. Non sento di aver paura dell’altro, anzi l’altro non c’entra, sono io che provo dolore, sono io responsabile.
È un processo simile alla vergogna, in cui chi la prova attribuisce a sé la responsabilità di ciò che prova: “Tu non centri, sono io che mi vergogno”. Non riconosco più che è l’azione dell’altro che genera in me la vergogna, sento solo la vergogna (Robine, 1995).
Insieme all’identificazione con la rabbia, il riconoscimento della vergogna come fenomeno di campo e non intrapsichico è un’altra tappa fondamentale nel lavoro con vaginismo e dolore erettile. E noi terapeut* siamo parte del problema. Noi siamo l’ambiente stupratore, noi facciamo vergognare la/il paziente, noi facciamo provare dolore, noi siamo l’altro. Se non accettiamo questa responsabilità, se vogliamo essere visti solo come aiuto, se siamo compulsivamente amorevoli, la persona non potrà dare valore alla paura, alla rabbia e alla vergogna, comprendere che ruolo giocano nella sua vita e da cosa lo stanno proteggendo.

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