Sessuologia e dintorni

By Centro Sessuologia Gestalt 22 Oct, 2023
di Barbara Bellini È “probabilmente” il disturbo sessuale più diffuso. “Probabilmente” perché alle statistiche manca tutta quella fetta di popolazione che non lo accusa come un disturbo, ma che lo considera normale. Non consideriamo la mancanza di desiderio come un disturbo quando la persona non è interessata a vivere le sue relazioni attraverso le sensazioni genitali e l'orgasmo, come accade per chi sceglie l’asessualità. L’intenzionalità che emerge nelle esperienze di asessualità può essere quella di incontrare il mondo su altri piani (affettivo-amicale, intellettuale, ecc.) e l’asessualità può essere vissuta in un'esistenza carica di energia erotica. La mancanza del desiderio può essere espressa da entrambe le persone in una coppia di lunga durata. Nella nostra cultura eurocentrica, eterosessuale e monogamica è considerato normale che una coppia che sta insieme da vent’anni o più accusi un drastico calo del desiderio sessuale. Crediamo che anche questa confluenza culturale dipenda dal considerare la sessualità attraverso il filtro della morale religiosa e che sia sostenuta dalle caratteristiche della cultura patriarcale. Se il fine della sessualità è la riproduzione, è “normale” che chi sta insieme da vent’anni o più, con un’età dei partner intorno ai 50 anni, non faccia più sesso, perché una coppia di questa età difficilmente vorrà o potrà ancora avere figli. Se consideriamo la mancanza di desiderio come un adattamento creativo, allora dobbiamo interrogarci sulle funzioni che può avere la desensibilizzazione di una parte del corpo così importante per il nostro benessere psicofisico. La nostra esperienza clinica ci porta a dire che l'intenzionalità succedanea che esprime la mancanza di desiderio può essere quella di vivere una vita serena e tranquilla, priva di dolore e di pericolo, escludendo le sensazioni genitali. Si privilegia la sicurezza a scapito della crescita. Talvolta questa soluzione funziona, pur con i suoi costi (ad esempio in termini di scarsa vitalità) altre volte no e la coppia rischia la morte stessa della relazione. Le nostre coppie stanno facendo uno sforzo e pagando dei prezzi per resistere alla separazione ormai dilagante. È probabile che il calo di energia sessuale non sia intrinseco alla coppia di lunga durata, ma dipenda dal rimanere aggrappati ad un modello patriarcale di coppia che forse non è più sostenente per le caratteristiche del nostro secolo. È paradossale che sulla coppia monogamica si basi tutta la progettualità familiare, e non ci sia sostegno a livello culturale per esplorare percorsi alternativi, modi differenziati di essere coppia, nonostante si stia dimostrando la realtà più fragile e difficile da sostenere. Alla coppia è richiesto non solo di fornire protezione, compagnia e sicurezza economica, come è sempre stato da 12 millenni a questa parte. Dalla rivoluzione agricola al dopoguerra, la famiglia è stata indispensabile per la sopravvivenza economica. Dalla seconda metà del secolo scorso in poi, sempre più è possibile affittare una seconda casa e separarsi. Pur impoverendosi, le persone sopravvivono e questa è una novità. I partner oggi hanno alzato le aspettative legate all'essere coppia: non basta protezione economica, vogliono ricevere amore, attenzioni romantiche e di sentirsi desiderati. Prima della rivoluzione agricola non aveva senso di esistere la coppia monogamica e la sessualità era vissuta all'interno del gruppo dei cacciatori. Rafforzava i legami comunitari. L'avvento dell'agricoltura ha modificato profondamente non solo la struttura economica e sociale, ma l'esperienza sessuale. Nasce la società patriarcale come oggi la conosciamo , basata sulla proprietà privata, l'accumulo di beni e tecnologie che vengono tramandati nelle generazioni. In una parola: il "patrimonio". La sessualità spesso è sostituita con l'eccitazione data dall'aumento dei beni, che non comporta rischi in quanto i beni sono oggetti e quindi, a differenza degli esseri umani, sono controllabili. Il patriarcato si esprime nel possesso, dominio, controllo, nell'eliminazione dei nemici, dei predatori, delle erbe infestanti, tutto ciò che può portare alla perdita del controllo. Così nella coppia. Privilegiare la monogamia vuol dire preferire la sicurezza e ridurre il rischio di soffrire, rinunciando all'eccitazione portata dalla presenza di altri partner e/o dalle fantasie e ricerca di esperienze nuove. Tranquillità e sicurezza versus eccitazione e crescita. Consapevoli che se diminuisce molto la sicurezza l'ansia aumenta e troppa ansia porta a desensibilizzazione e chiusura nella coppia. Così come troppa sicurezza e tranquillità porta alla noia e all'inedia che nuovamente desensibilizza e allontana. Avere relazioni extraconiugali risveglia la sessualità, ma rimaniamo sempre all'interno del modello patriarcale della coppia, anzi, avere amanti lo rafforza, più che denunciarne le crepe. Quando la mancanza di desiderio è espressa solo da una delle due persone, allora questo fenomeno ha caratteristiche molto diverse da quello precedente. Tipicamente lo manifesta la donna nei confronti dell’uomo, ma ora che le relazioni stanno diventando più paritarie si manifesta anche nell’uomo e nelle coppie gay e lesbiche. La frigidità è un disturbo nel momento in cui la donna vorrebbe vivere la sessualità, ma non ci riesce. In questo caso parliamo di una gestalt fissa, ovvero un adattamento che si ripropone in quanto l’intenzionalità originaria (il modo in cui la persona vuole vivere pienamente la sessualità) non viene raggiunta e l’intenzionalità succedanea diventa la migliore forma che riesce a creare. La desensibilizzazione genitale può diventare la migliore soluzione possibile per la donna per portare avanti un rapporto che non riesce a modificare. Rinunciando a vivere le proprie sensazioni sessuali, esprime un rifiuto non solo di aspetti relazionali, ma in un'ottica sociale più allargata, di un modo specificamente culturale di vivere la sessualità in cui le donne non si riconoscono. Se guardiamo la mancanza di desiderio (espressa da un solo partner) dal punto di vista di campo, frequentemente ci troviamo di fronte ad uno sbilanciamento all’interno della relazione: uno dei due sta diventando dominante nei confronti dell’altro/a che si vive oggettivizzato/a. Può essere una dinamica che crea sofferenza e che sta alla base di questo disturbo, oppure una conseguenza viziosa che si crea successivamente. In ogni caso contribuisce a creare sofferenza nella coppia. Un tipico esempio di dominanza ed oggettivazione è quando un partner chiede all’altro/a di fare l’amore anche se si accorge che questi non manifesta desiderio e poi insiste con frasi tipo: “Vedrai che se poi cominci ti piace” o “È tanto tempo che non lo facciamo, io ne ho bisogno” o “Fallo per me” o “Non puoi lasciarmi così”. Quest’ultima frase è frequente quando il/la partner perde il desiderio durante il rapporto sessuale. Chiedere ad un’altra persona di fare sesso anche se non lo desidera, vuol dire chiederle di rendersi un oggetto e noi diventiamo dominanti. Gli oggetti operano non partendo dal desiderio ma da un programma, gli esseri viventi agiscono spinti dal bisogno o dal desiderio. Se io mi forzo a fare l’amore senza sentirne il desiderio ma per la richiesta dell’altro mi rendo un oggetto, perché nego le mie sensazioni. È anche possibile che facendolo io poi sviluppi un’eccitazione genitale e magari sperimento anche una forma di orgasmo, ma la mancanza di desiderio resterà impressa in noi e tenderà a fare aumentare il rifiuto nei confronti dell’altro/a. La mancanza di desiderio ha molti tratti in comune con l’impotenza erettile o lubrificatoria. La differenza principale è che, mentre nell’impotenza erettile o lubrificatoria la persona dice di voler fare sesso con l’altro/a “ed è il suo pene o la sua vagina che non funziona”, nella mancanza di desiderio la persona non sente il desiderio, quindi, non c’è una spaccatura interna. C’è un sentire a cui potersi appoggiare. La mancanza di desiderio non è un problema, ma è una soluzione che denuncia ciò che sta avvenendo nella coppia. Il fatto che venga espressa solo da uno dei due non vuol dire che sia un problema di quella persona, ma solo che questa è l’elemento attraverso cui la sofferenza della coppia si sta esprimendo. Probabilmente è l’elemento più sensibile o più sotto pressione o con una storia che gli/le fa vivere con sofferenza l’essere oggettivizzata/o. Come possiamo vedere, la terapia della Gestalt ha una visione molto diversa dall’approccio cognitivo-comportamentale. Per quest’ultimo il sintomo (mancanza di desiderio) non è la soluzione che la coppia è riuscita a trovare per restare insieme, ma è il problema da eliminare grazie ad un approccio strategico. Se nel lavoro con le coppie non emerge questa voglia di esserci l’un* per l’altr*, la mancanza di desiderio può denunciare una situazione di co-dipendenza. Cioè una situazione in cui io vorrei staccarmi dal mio/a compagno/a che riconosco essere dannoso/a per me, ma non ho la forza.
By Centro Sessuologia Gestalt 15 Oct, 2023
di Bellini Barbara Il termine impotenza è fuorviante, o meglio, è il classico esempio di una diagnosi che non spiega il problema ma contribuisce fortemente a crearlo. Se comincio a pensare che il mio pene o la mia vagina hanno qualcosa che non va, che non funzionano, apparentemente mi assolvo, cioè mi separo da una parte di me che definisco disfunzionale, mentre “io” vorrei e continuo a desiderare ardentemente di avere un rapporto sessuale con l’altro. In questo modo però io mi autodefinisco impotente, in quanto non ho potere su una parte di me che sfugge al mio controllo ed agisce contro la volontà. Se invece ci assumiamo la responsabilità di rendere impossibile la penetrazione e accettiamo che, aldilà di quella che può essere la nostra percezione emotiva o cognitiva, noi stiamo esprimendo un rifiuto al contatto genitale con l’altro, ecco che torniamo ad essere “potenti”. La difficoltà sta nel fatto che non siamo consapevoli di questo rifiuto. Ci siamo alienati da esso e ne scarichiamo la difficoltà su una parte di noi, desensibilizzandoci. Facciamo come Muzio Scevola che brucia la sua mano sul braciere per punirla di aver accoltellato la persona sbagliata. La potenza comporta respons-abilità. Cioè la capacità di confrontarsi col partner e di sostenere il confronto. Ecco un primo dato relazionale, l’impotenza erettile o lubrificatoria, è sempre una deresponsabilizzazione rispetto ad una dinamica relazionale. È una strategia di sopravvivenza che si esplica attraverso il “vorrei, ma non posso”. Nella mia strategia di sopravvivenza è più accettabile risultare inadeguato/a, che non “cattivo/a”, incapace, o rifiutante. “Non voglio” non è esprimibile…. molto meglio: “Non posso”. Nel caso dell’impotenza erettile secondaria è interessante notare che il primo episodio riportato dai pazienti è generalmente collegato a situazioni di richiesta e “pretesa” della prestazione sessuale in cui l’uomo ha sperimentato il senso di impotenza non solo a livello genitale, ma anche nelle altre dinamiche relazionali. Nella relazione con il/la partner si è sentito inadeguato, non in grado di soddisfarla/o, non “abbastanza” per lei/lui. Nella sua esperienza una situazione di pressante richiesta sessuale può rappresentare un attacco al suo valore. Domande quali: “Perché non vuoi fare l’amore?”, “Non mi vuoi più?”, “Non mi vedi più bella/o?” facilmente attivano un senso di colpa e privano il sesso della spontaneità e libertà che sono indispensabili per i riflessi sessuali. L’eccitamento sessuale sia negli uomini che nelle donne è una reazione spontanea al desiderio e alla stimolazione efficace. L’attesa e la pretesa della prestazione sessuale riflettono una situazione relazionale di difficoltà che preme per emergere in superficie. Se i partner non rischiano di affrontarla, allora facilmente finiranno per evitarla. Da questo momento la paura dell’insuccesso sessuale diventerà la causa immediata dell’impotenza. Anche nell’esperienza femminile l’ansia da prestazione ha un effetto potente sulla mancanza di lubrificazione. Nelle situazioni di sessualità “inesigente”, in cui i terapeuti invitano la coppia ad uno scambio di sensazioni piacevoli vietando il coito, la donna, liberata dalla pressione di dover necessariamente eccitarsi, avere un orgasmo e soddisfare il/la compagn*, spesso arriva a provare intense sensazioni erotiche e sensuali. Il fatto che il/la partner “rinunci” al desiderio di appagamento orgasmico potrà essere, nell’esperienza della donna, una prova molto toccante di quanto gli/le sta a cuore il piacere sessuale della compagna/moglie. In questa situazione, essa potrà riappropriarsi della “responsabilità” del proprio piacere sessuale, scoprendo che non verrà respinta o umiliata se esprime i propri desideri e se mostrerà al partner di avere una personalità attiva. Cominciare ad accettare che io non possiedo un pene o una vagina, ma “sono” anche pene e vagina e mi esprimo attraverso le azioni, è fondamentale per recuperare il senso del mio radicamento nella situazione relazionale: cioè la mia forza personale. Spesso le persone non capiscono come sia possibile aver voglia di fare l'amore, ma non avere l'erezione o la lubrificazione. Oppure essere eccitati a livello genitale in una situazione relazionale in cui non è in gioco il sesso. Accade specialmente agli uomini per motivi di natura estetica. È assolutamente non appropriato se un uomo ha un’erezione mentre sta consolando un’amica/o che piange, o sta giocando con un bambino, o sta ballando o è coinvolto in attività eccitanti che, però, non sono sessuali. Ovviamente questo vale anche per le donne, ma siccome il fenomeno dell’umidificazione è meno evidente, le donne sono meno spesso costrette ad alienarsi dai propri genitali. Chiediamo a noi stessi di funzionare a compartimenti stagni. Di avere sensazioni che percorrano tutto il nostro corpo, ma non i genitali. Siamo allenati ad alienarci dai nostri genitali. Il termine “penetrazione”, usato per descrivere l’amplesso sessuale rimanda all’azione del pene di entrare a fondo, rendendo la vagina un “dentro” passivo, e il pene un intrusivo attivo. Questa è una visione assolutamente uomo-centrica che non ha nulla di fenomenologico. Da un punto di vista fenomenologico ci sono volte in cui avviene la penetrazione, volte in cui avviene la “vaginazione” e, il più delle volte, entrambe contemporaneamente. È però interessante che il termine vaginazione non esiste, è un neologismo che dovrebbe entrare nel vocabolario corrente e che aiuterebbe molto nel superamento dell’impotenza. Nel linguaggio comune e volgare si dice che la donna “la dà”. Eppure è la vagina che “prende” dal punto di vista fisico. Spesso la mancanza di lubrificazione nella donna esprime proprio il rifiuto a farsi penetrare. Il rifiuto a questa azione intrusiva dell’uomo, a subire passivamente. Questo è ancora più evidente nel vaginismo, in cui, anche con l’uso di lubrificanti, il dolore è intenso e impedisce totalmente la penetrazione. Anche nell’uomo, d’altronde, l’atto della penetrazione può essere fonte di paura. Ci sono uomini che sentono che non sono loro a penetrare la donna, ma è questa che li “vagina”. Questa percezione, invece di rilassarli, li fa sentire inadeguati, in pericolo. La famosa fantasia della “fica dentata” che potrebbe castrare l’uomo riflette questo genere di percezione. Essa è vissuta non come dato fenomenologico, ma come qualcosa di “sbagliato”, “che non va bene”: l’uomo non dovrebbe sentire così o la donna non dovrebbe comportarsi così. Molti uomini riportano fenomeni di impotenza vissuti con donne inaspettatamente molto attive e intraprendenti.
By Centro Sessuologia Gestalt 07 Oct, 2023
di Barbara Bellini Il corrispondente maschile del vaginismo viene normalmente definito col termine generico di penepatia, che include anche fenomeni come il priapismo ed il pene ricurvo. Se parliamo del solo fenomeno dell’erezione dolorosa, ritroviamo una dinamica molto simile sia nell’uomo che nella donna, cioè una contrazione del perineo e dei muscoli della vagina nella donna e dei corpi cavernosi del pene nell’uomo che si oppongono alla dilatazione nella prima e all’erezione nel secondo. Mentre per il vaginismo la componente psicologica è ormai quasi universalmente accettata, il dolore erettile dell’uomo viene quasi sempre riportato a cause organiche e più raramente gli uomini vengono in terapia per questo motivo. Se in tutti i disturbi sessuali vediamo un vissuto di alienazione dai propri genitali, nel vaginismo e nel dolore erettile questa alienazione diventa massima. La persona è totalmente inconsapevole di opporsi a qualcosa che sta dicendo di voler fare. Nei vari tipi di impotenze e di orgasmi/eiaculazioni precoci assistiamo spesso ad una sorta di manipolazione del vissuto genitale, mentre in questa sofferenza l’opposizione è netta e violenta: una violenza, tuttavia, totalmente alienata. Frequentemente le donne manifestano vissuti di rabbia, verso se stesse quando il vaginismo è tale da impedire completamente la penetrazione verso il compagno quando la contrazione rende il rapporto doloroso. In questo caso la rabbia è verso il partner che insiste per avere ugualmente il rapporto. Nell’uomo la dinamica è simile. La rabbia è in genere rivolta verso di sé, ma spesso anche nei confronti del/la partner, accusat* di non essere sufficientemente delicat*. L’identificazione con la propria rabbia è una tappa spesso fondamentale per il lavoro con il vaginismo e il dolore erettile. La rabbia è frequentemente portata in modo reattivo nelle sedute ed il/la terapeuta facilmente si trova ad essere accusato di non capire il vissuto della persona. Risulta particolarmente difficile sostenere la persona ad assumersi la responsabilità del fenomeno poiché l’alienazione è totale. Il/la professionista deve essere pront* ad avere momenti di confronto molto “caldi”. È importante arrivare a costruire un clima di forte intimità e sicurezza prima che la persona accetti di guardare alla propria sofferenza come un’alleata e non come una nemica e lo stesso vale per il rapporto con il/la professionista. Per la persona è impossibile riuscire a sentire la propria forza nel rilassare. La maggior parte di noi eurocentrici, condivide un introietto culturale che la forza risieda nella contrazione, nella durezza, nella violenza. Poche donne affermerebbero di sperimentare la forza della loro vagina nel rilassarne i muscoli e nel “prendere” il pene o le dita o un oggetto. La maggior parte riferiscono al massimo l’esperienza di aprirsi ad accogliere. Eppure noi rilassiamo i muscoli della mandibola per aprire la bocca e addentare, afferrare, succhiare il cibo. Solo i bambini piccoli e i gravi disabili vengono in-boccati. Nel vaginismo la donna contrae i muscoli della vagina come se dovesse proteggersi da uno stupro, che però non riconosce come tale, e se il rapporto avviene lo stesso le conseguenze sono simili. Con l’uomo non si pensa mai alla paura di essere stuprato, se non nell’ano, perché lo stupro è verso una cavità, verso chi non vuole accogliere. Ma il significato della parola stupro non è legato alla penetrazione. Stupro indica offesa, costrizione, percosse, violenza. Perls sosteneva che spesso la masturbazione maschile si traduce in uno stupro del pene da parte della mano. Non è il pene, sono le mani che stuprano, che percuotono, bloccano, costringono. Sia nel vaginismo che nel dolore erettile, la persona vive il contatto genitale con l’altro con la paura del dolore, della costrizione, della mancanza di cura. Non sento di aver paura dell’altro, anzi l’altro non c’entra, sono io che provo dolore, sono io responsabile. È un processo simile alla vergogna, in cui chi la prova attribuisce a sé la responsabilità di ciò che prova: “Tu non centri, sono io che mi vergogno”. Non riconosco più che è l’azione dell’altro che genera in me la vergogna, sento solo la vergogna (Robine, 1995). Insieme all’identificazione con la rabbia, il riconoscimento della vergogna come fenomeno di campo e non intrapsichico è un’altra tappa fondamentale nel lavoro con vaginismo e dolore erettile. E noi terapeut* siamo parte del problema. Noi siamo l’ambiente stupratore, noi facciamo vergognare la/il paziente, noi facciamo provare dolore, noi siamo l’altro. Se non accettiamo questa responsabilità, se vogliamo essere visti solo come aiuto, se siamo compulsivamente amorevoli, la persona non potrà dare valore alla paura, alla rabbia e alla vergogna, comprendere che ruolo giocano nella sua vita e da cosa lo stanno proteggendo.
By Centro Sessuologia Gestalt 07 Oct, 2023
di Bellini Barbara In che cosa l'eiaculazione e l'orgasmo precoce differiscono dall’impotenza? Sono entrambe forme d’ansia, che però sopraggiunge in momenti diversi. Qui non ci troviamo di fronte ad un rifiuto della penetrazione o della vaginazione, ma ad un’urgenza di conclusione. Nel caso dell’impotenza, l’esperienza è rifiutata in quanto pericolosa ed il pericolo è vissuto come immediato, presente nell’adesso della situazione che quindi viene evitata. Nell’eiaculazione precoce o nell’orgasmo precoce, invece, il rapporto sessuale viene ricercato e il pericolo sembra essere proiettato in un futuro più o meno prossimo; quindi, dobbiamo abbreviare il più possibile i tempi per evitare che questo futuro si concretizzi. L’esperienza di scoprire il piacere condiviso viene meno, in primo piano viene cercato l’aumento e la scarica delle sensazioni genitali. La persona sperimenta l’ansia nell’istante in cui raggiunge un livello elevato di eccitazione, che spesso è il frutto di un’intensa immaginazione. Essa anticipa la realtà, la precede e, in qualche modo, la sostituisce. È proprio quest’ansia a creare una desensibilizzazione delle sensazioni genitali e quindi l’orgasmo involontario. Dunque, paradossalmente, la causa dell’eiaculazione precoce non è un’eccessiva sensibilità, come si ritiene comunemente, ma al contrario, una desensibilizzazione. Oltre alla rapidità del riflesso eiaculatorio, la persona non è in grado di esercitare un controllo volontario sul riflesso stesso (Kaplan, 1974). L’eiaculazione precoce, con il suo accelerare velocemente l’eccitazione, potrebbe essere la soluzione relazionale per vivere la sessualità come scarica puramente genitale evitando l’esperienza della condivisione e dell’intimità con la persona reale. Nel contesto di un rapporto sessuale con un/a partner con cui c’è coinvolgimento amoroso ed eccitazione generalizzata, per prolungare il rapporto sessuale è necessaria un’attenta concentrazione sui genitali, unita al contatto con la respirazione. Ogni orgasmo, anche se molto debole, è comunque accompagnato da un’accelerazione della respirazione, per cui se manteniamo la respirazione lenta e lunga, soprattutto con prolungate espirazioni, il controllo sulla nostra eccitazione aumenta e dunque anche sull’innesco del riflesso orgasmico. Il contatto con i nostri genitali consente di focalizzare a livello corporeo le sensazioni che precedono l’eiaculazione, come tale deve aumentare, non diminuire, per aumentare la durata del rapporto sessuale. Qui però entriamo nel punto nevralgico: abbiamo voglia di aumentare la durata del rapporto sessuale? Abbiamo voglia di sentire l’eccitazione crescere? Di contenere a lungo la tensione, mantenendo un contatto intenso e prolungato con la/il nostro/a compagno/a, fino a sperimentare un’esplosione talmente intensa da perderci? Da sentire i nostri confini dissolversi? Da perdere il senso di noi? L’orgasmo precoce, sia per l’uomo che per la donna, ci mette al riparo dal rischiare una risposta.
By Centro Sessuologia Gestalt 06 Oct, 2023
Quando in un nucleo familiare-affettivo una persona fa coming-out avviene una destabilizzazione, una crisi, un cambiamento, si presenta un’opportunità – non è sempre facile però. Cos’è il coming-out? E’ quando una persona sceglie di dire qualcosa che nessuno/a sa ancora, una novità rispetto al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere. C’è da dire che solitamente si dà per scontato che una persona sia eterosessuale e che l’identità di genere corrisponda al sesso biologico assegnato alla nascita. Ma non sempre è così. Dunque chi non si riconosce in queste aspettative familiari e sociali, può scegliere di dirlo , cioè fare coming-out. Ma non è semplice dirlo quando le persone intorno te non se l’aspettano, quando temi di non essere accolta/o/*. E non è facile sentirtelo dire se non sei pronto/o per questa novità. Con questa proposta noi vogliamo concentraci sulle difficoltà del sentirselo dire, sui vissuti dei genitori e/o parenti di chi fa coming-out. Perché tutti e tutte abbiamo paure nascoste, l’immaginario che avevamo può essere stravolto, per esempio possiamo avere dei dubbi riguardo alla prospettiva di felicità che si apre dinnanzi al nostro caro o cara o car*; e tanti altri timori, tutti diversi fra loro. Possiamo avere anche dei pregiudizi, o giudizi, e anche provare vergogna perché qualcosa che è stato nascosto stimola la vergogna. Ciò che non si conosce spaventa, è normale. E’ pensando a queste cose che abbiamo deciso di creare un gruppo di accoglienza, ascolto e confronto per genitori e parenti di persone lgbtqia+ (cioè persone che hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere diversi dalla norma, ossia dalla maggior parte). Sappiamo che la novità ci fa crescere, ma anche destabilizzare. In gruppo possiamo aprirci e confrontarci. Un clima accogliente può aiutarci nell’andare oltre il primo istinto di difesa e protezione di fronte al cambiamento inaspettato che rischia di travolgerci. Le nostre reazioni di difesa sono per lo più automatiche e a tratti ci spiazzano, vorremmo uscirne, ci piacerebbe stare vicino alla persona cara, ma non sappiamo come fare. Oppure pensiamo di non volerlo fare, di non esserne capaci. Le emozioni ci invadono; a volte è la rabbia, altre volte la speranza, o anche il desiderio. Sono tutti sentimenti che possono guidarci e farci crescere se lavoriamo sulla nostra consapevolezza e sperimentiamo insieme quanto sia possibile portarci nelle relazioni con autenticità. Attraverso l’ascolto e la condivisione delle esperienze altrui, in un gruppo di persone che stanno vivendo una situazione simile alla nostra, può essere più facile affrontare e gestire gli inevitabili conflitti che insorgono in famiglia. Il gruppo sarà condotto da una Mediatrice familiare e da una Counselor della Gestalt , entrambe professioniste della relazione e formatrici.
26 Jun, 2023
“Come fisioterapista perineale, l’impostazione gestaltica ha fatto sì che l’approccio di Flavia Mahnic al sintomo sia sempre stato completamente diverso dal tradizionale modo di operare in fisioterapia. Se la paziente arriva con un problema da risolvere (ipertono, ipotono, dolore,…) la richiesta è sempre la stessa: la risoluzione del problema, possibilmente con un intervento diretto. Nel suo modo di lavorare Flavia vede come il sintomo esprima un adattamento creativo della persona, che quindi molto spesso non rappresenta il vero problema bensì la soluzione trovata dall’organismo . L’essere gestalt counselor le permette di interrogarsi sul senso che questo “modo di stare” abbia per la persona, e questa prospettiva consente l’emergere di sofferenze (spesso anche molto antiche) che hanno coinvolto la zona perineale e che talvolta necessitano di un aiuto psicoterapeutico. Talvolta, non sempre, perché alcune volte il solo riconoscere dignità ad un certo funzionamento, l’accogliere il sintomo come il modo in cui quell’organismo si sta esprimendo, è di per sé risolutivo: già solo questo può permettere alla sofferenza di modificarsi. Altre volte invece emergono vissuti molto più complessi, profondi, che parlano della necessità di altri tipi di intervento e sono queste le occasioni in cui Flavia invia ad altri professionisti per permettere alla paziente di ricevere un sostegno completo. La sapiente esperienza di Flavia, che integra competenze anatomiche, fisiologiche e di funzionamento strutturale alla delicata abilità di ascolto che la caratterizza, fanno si che le sue assistite si aprano con estrema facilità, sentendosi in un luogo sicuro e senza giudizio, venendo accolte senza riserve anche nelle proprie parti più fragili . Permettere a qualcuno di entrare dentro di noi è uno dei momenti più difficili in medicina, e in qualche modo questo “permesso” con Flavia avviene parallelamente nel corpo e nell’anima, attraverso l’auto -svelamento."
By Cristina Cecconato 08 May, 2023
"Se parliamo di abusi sessuali ci sembra doverosa una sottolineatura linguistica che faccia emergere i significati culturali della parola sessualità. Questi significati derivano da una concezione patriarcale che limita e degrada fortemente la sessualità femminile e quella di chiunque non si riconosca in una sessualità moralmente codificata ed etero orientata. Gli “abusi o molestie sessuali” chiamano in causa la sessualità, ma non hanno nulla a che fare con essa. Sarebbe più corretto definirli atti “delinquenziali” e non “sessuali”. Siamo talmente confluenti con l’attuale morale da non cogliere le incongruenze di certi processi di pensiero. Ad esempio, se un uomo utilizza le proprie mani per costruire una lancia termica e con questa vuole bucare la serranda di una gioielleria, a nessuno verrebbe in mente di definire questo atto come un “abuso artigianale”: lo si definisce un atto delinquenziale punto e basta. Non ci si interroga se i gioielli in vetrina erano “provocatoriamente in vista” o se l’uomo era “emotivamente alterato” perché non poteva permettersi un regalo costoso alla fidanzata. È un rapinatore e quindi un delinquente. E se alla fine del processo non subisce una condanna esemplare ci indigniamo che non c’è la certezza della pena e cominciamo a discutere sul diritto per i commercianti di avere armi e poter sparare. Però se lo stesso uomo usa le proprie mani per immobilizzare una donna e usa il proprio pene per violare l’integrità fisica e il diritto all’autodeterminazione di lei, definiamo questo atto un “abuso sessuale” e non so come reagiremmo se le donne, nel momento in cui venissero molestate per strada, estraessero una pistola e sparassero per proteggersi da una “molestia sessuale”. Il punto è che, per la morale patriarcale, palpare una donna su un autobus è meno grave che rubare una collana, in quanto la difesa della proprietà è più importante del diritto all’autodeterminazione femminile (o di altre “diversità” umane). Nel primo caso l’uomo viene definito un maiale “e però queste ragazze dovrebbero coprirsi un po’ di più…”, nel secondo caso è un ladro, quindi un delinquente e va punito. C’è una evidente manipolazione nell’utilizzo della sessualità per descrivere questo tipo di reati. La sessualità, d’altra parte, si presta a questo genere di manipolazione perché la sua etimologia evoca unione, partecipazione, piacere reciproco. Utilizzando la parola “sessualità” per definire un reato, si finisce inevitabilmente per alimentare un sospetto di connivenza tra le due parti in causa. Se cominciassimo ad usare maggiormente il termine delinquente, molti comportamenti che erroneamente vengono definiti sessuali verrebbero visti sotto altra luce. Il comportamento delinquenziale ha caratteristiche diverse da quello responsabile/irresponsabile. La “responsabilità” è un concetto largamente sviluppato nel PHG e in tutti i libri di Perls. Il comportamento sociale “responsabile” si basa sullo sviluppo dell’adattamento creativo, cioè di quel processo di crescita in cui io mi adatto all’ambiente e contemporaneamente adatto l’ambiente a me. Un processo in cui è fondamentale la consapevolezza del mio essere indissolubilmente collegato all’ambiente e qualsiasi violenza io eserciti sui confini ha conseguenze negative su tutto l’ambiente e quindi anche su di me. Come sottolineano i fondatori della Gestalt, la cellula più piccola e indivisibile è “organismo/ambiente”. Il comportamento sociale “irresponsabile” si basa sul delirio individualistico, in cui io ritengo che se qualcosa va bene per me andrà per forza bene anche per gli altri. Di conseguenza ho dei vantaggi e non ne pagherò alcun prezzo. Un chiaro esempio è il tema ecologico: se continuo ad utilizzare la plastica sarò soddisfatto nel mio desiderio di acqua frizzante, imballaggi asettici, oggettistica a basso costo con la comodità dell’usa e getta senza sentire la responsabilità di dove tutta questa plastica vada a finire. Tranne poi sentirmi angosciato quando vedo immagini dei fondali marini pieni di plastica o di balene morte trovate con lo stomaco pieno di imballaggi di plastica o quando scopro che anche il cibo che mangio contiene frammenti di plastica. Entrambi questi comportamenti sono accomunati dall’assunzione di responsabilità delle conseguenze delle mie azioni. La differenza è nel grado di consapevolezza di tali conseguenze. La persona irresponsabile, in realtà, è inconsapevole di tante conseguenze che le sue azioni possono avere. Un individuo che si metta al volante ubriaco, se non è un delinquente, riterrà giusto essere imprigionato se dovesse uccidere qualcuno (per l’eccesso di alcol alla guida), ma egli è convinto che questo non potrebbe mai succedere a lui (delirio individualistico). Il comportamento “delinquenziale” si basa invece sulla totale o parziale indifferenza per la conseguenza delle mie azioni e sul diritto di violentare i confini del mio ambiente per ricavarne soddisfazione e/o profitto per me e per altri. È vero che spesso comportamento delinquenziale/criminale e comportamento sociale irresponsabile si sommano. Tuttavia nel comportamento irresponsabile in primo piano c’è l’inconsapevolezza e la persona è convinta di non fare del male ad alcuno. Nel comportamento delinquenziale/criminale in primo piano c’è l’indifferenza delle conseguenze sugli/sulle altre/i, sia persone, che animali, che ambiente. L’unico aspetto che conta è il mio guadagno e soddisfazione. Quando si sovrappone all’inconsapevolezza l’uomo arriva a comportamenti assurdi come quel boss della camorra che ordinò di svuotare rifiuti tossici in terreni dove sotto c’erano falde acquifere e all’obiezione di un sottoposto che faceva notare che avrebbero inquinato le acque che poi sarebbero arrivate nei rubinetti anche delle loro case rispose: “E che m’importa, tanto noi beviamo acqua minerale”. La situazione si complica ulteriormente in quelle situazioni in cui il comportamento delinquenziale viene sostenuto dal governo e dalla morale, come nelle guerre, dove i/le soldati/e vengono autorizzate ad uccidere, anzi vengono pagati/e per farlo, vengono quindi autorizzati/e a compiere azioni tipiche dei comportamenti delinquenziali e criminali. Non a caso, durante le guerre avvengono violenze gratuite sui civili, furti, stupri, cioè azioni che appartengono al comportamento delinquenziale. Potremmo restare sorpresi dell’importanza di introdurre il concetto di comportamento delinquenziale anche nella pratica terapeutica. Parecchi anni fa durante la seconda seduta di coppia emerse il fatto che a volte il marito diventava violento e picchiava la moglie. Chiedemmo al marito se si rendeva conto di essere un delinquente. Ci fu una grossa reazione da parte di entrambi, inclusa la moglie che difendeva il marito dicendo che era una persona per bene, solo che a volte perdeva il controllo. Fu un lavoro lungo, ma quando entrambi riuscirono a comprendere la portata di un cambiamento di prospettiva come quello di chiamare questa azione “delinquenziale”, la loro relazione cambiò radicalmente. In realtà era vero che lui era “anche” una persona socialmente responsabile con alcuni aspetti delinquenziali che lei finiva per sostenere. Quando lui riuscì ad accettarlo poté scegliere di rifiutarli e lei, contemporaneamente, mise in crisi il proprio ruolo di vittima. Possiamo e dobbiamo considerare che i comportamenti delinquenziali non sono tutti uguali, hanno gravità diversa e richiedono quindi condanne diverse o anche assoluzioni diverse. Tra l’altro riconoscere che i comportamenti delinquenziali sono tali perché hanno queste caratteristiche sopra descritte, cioè – ripetiamo – la totale o parziale indifferenza per la conseguenza delle mie azioni e sul diritto di violentare i confini del mio ambiente per ricavarne soddisfazione e/o profitto per me o per altri, aiuta a comprendere meglio le sindromi post-traumatiche che presentano molti soldati di ritorno da azioni di guerra. Se una persona non ha caratteristiche delinquenziali importanti, l’essere autorizzato dal proprio stato a commettere atti delinquenziali può non essere sufficiente per superare il giudizio della propria coscienza: cioè la consapevolezza di essersi comportato da delinquente. A proposito di responsabilità, Georgia Zara, professore associata di Psicologia criminologica all’Università degli Studi di Torino, afferma che una caratteristica dei sex offender, cioè coloro che compiono reati sessuali, è il diniego (Zara, 2018). Zara si interroga sulla funzione psicologica, clinica e soprattutto sociale del diniego, sottolineando come molti sex offender tendano a continuare a negare la loro partecipazione agli eventi offensivi, anche quando la condanna è divenuta irrevocabile: nella maggior parte dei casi non accettano la responsabilità per le loro azioni, invocando spiegazioni, a volte razionalizzando, altre volte minimizzando, per discolparsi da quanto accaduto. Il rischio di parlare di “violenze sessuali” è che lo sfondo sessuale finisca per essere una sorta di giustificazione o attenuante rispetto alla violenza compiuta. Se smettessimo di includere i comportamenti delinquenziali nella sessualità, creeremmo uno sfondo culturale diverso da quello attuale e potremmo, forse, cominciare a parlare di quest’ultima per quello che è: una forza apollinea e al contempo dionisiaca, che crea, che tende a sostenere l’unione tra gli esseri umani attraverso esperienze piacevoli di vario tipo, che conduce ad un aumento di intimità, coesione e creatività, ma anche che porta al caos, al cambiamento, alla rivoluzione". Tratto dal libro "Sessuologia della Gestalt. Manuale imperfetto per continuare la rivoluzione sessuale" di Mariano Pizzimenti e Barbara Bellini, Franco Angeli, 2022.
24 Sep, 2022
Paolo Mottana, è professore di filosofia dell’educazione e di Ermeneutica della formazione e pratiche immaginali all’Università di Milano Bicocca, ha insegnato anche all’Università di Firenze e all’Accademia di Belle Arti di Milano. Dirige, insieme a Romano Madera, il Master in Culture simboliche per le professioni dell’arte, dell’educazione e della cura. Attualmente presiede l’Associazione IRIS (Istituto di Ricerche Immaginali e Simboliche), fondata nel 2005 insieme al suo gruppo di ricerca universitario. Tale Associazione indirizza le sue ricerche da una parte alla riflessione intorno al ruolo dell’immagine simbolica nell’educazione e dall’altra alle prospettive di una controeducazione radicale e libertaria. Ha collaborato con Riccardo Massa per alcuni anni, come suo allievo, con il quale si è occupato di studiare la relazione tra psicoanalisi e formazione (da cui il testo Formazione e affetti, Armando, 1993 e Dissolvenze. Le immagini della formazione (con Angelo Franza), CLUEB, 1996).
23 Sep, 2022
INTERVISTA A BOB E RITA RESNICK
23 Sep, 2022
Questo lavoro arriva dall’incontro con la sofferenza che molte coppie, nell’arco degli ultimi 5 anni, hanno portato in terapia di coppia e grazie agli stimolanti confronti, seduta dopo seduta, con Mariano, il mio compagno di co-terapia. L’approccio teorico di riferimento è riconducibile alla teoria del campo (Robine, 2006) e alla teoria della Psicoterapia della Gestalt (PHG, 1951; Pizzimenti 2016; Salonia 1992; Spagnuolo Lobb 2011). Focalizzerò tre temi collegati alla terapia di coppia: la co-conduzione, l’intervento sulla figura e intervento sullo sfondo. LA CO-CONDUZIONE NELLA TERAPIA DI COPPIA La scelta di condurre le sedute con una persona che non è solo un collega di lavoro, ma è parte della nostra vita (come potrebbe essere un amico-collega o, come in questo caso, il tuo partner), ha un senso clinico che noi abbiamo compreso appieno solo “in corso d’opera”. A differenza di molti approcci, il fuoco dell’intervento non sono gli individui, ma è il “sé della coppia”. Non lavoriamo sul sé dei pazienti, sulle loro storie, paure o fragilità, ma sul “campo della coppia” che attiva questi vissuti e su come viene costruito dai singoli[1]. Gli approcci classici lavorano alternativamente sui singoli individui e, nel migliore dei casi, sulla relazione tra di loro, non utilizzando le potenzialità di un lavoro di campo . La co-conduzione è un setting di lavoro molto fertile, in quanto un solo professionista tenderà a lavorare con l’uno o con l’altro paziente/cliente portando l’attenzione più sull’individuo (sulla sua responsabilità) che sulla co-costruzione che fa la coppia. Nella co-conduzione i terapeuti stessi creano già un campo in cui è presente la loro storia, le esperienze vissute insieme, le confidenze condivise, l’intimità, le differenze, le difficoltà attraversate nella reciproca conoscenza … e tanto altro. Il dialogo che i terapeuti iniziano tra di loro in presenza della coppia, influenza, in vari modi, il corso della terapia e, allo stesso tempo, è vero anche il contrario, cioè il modo in cui i terapeuti interagiscono tra di loro è influenzato dalla coppia stessa: raccogliere queste informazioni è utile per comprendere la sofferenza presente nella coppia e individuare un sostegno possibile. Può essere un dialogo implicito, fatto di sguardi, movimenti corporei, espressioni facciali o esplicito, quando un terapeuta rivela all’altro come si sente, i dubbi e ciò che lo colpisce. Il confronto tra i professionisti non è, in primis, una “tecnica” per raggiungere un risultato, ma è un’interazione spontanea che può acquisire varie forme e che esprime qualcosa che appartiene anche alla coppia dei pazienti (non solo dei terapeuti). In altre parole, il contatto che i terapeuti sperimentano tra loro in seduta è collegato con il campo relazionale della coppia. E’ facile osservare come cambi l’interazione tra i terapeuti a seconda della coppia con cui lavorano. Questo materiale costituisce l’”Es della situazione” (Robine, 2006). L’osservazione di se stessi, oltre che della coppia-pazienti, fornisce informazioni utili per la diagnosi e l’intervento. Rimandando ad altra sede un approfondimento della co-conduzione, ora esploriamo i fuochi di lavoro nella terapia di coppia ESPLORAZIONE DELLA FIGURA INIZIALE E .. COSA C’E’ NELLO SFONDO? La coppia arriva in seduta portando una figura rigida. Il primo step della terapia è accogliere la situazione iniziale e, contemporaneamente, prestare attenzione a cosa c’è nello sfondo che sostiene questa figura. La figura è spesso una lotta di potere, o una situazione abbandonica, o un disturbo in cui un partner viene visto come malato (ad es. l’uomo che soffre di eiaculazione precoce o la donna che non ha desiderio o è anorgasmica..). C’è quindi una sovralimentazione della figura, ovvero una figura che occupa tutto lo spazio vissuto della coppia e che porta allo schiacciamento delle altre figure potenziali. Per la coppia è difficile “sospendere” la questione problematica per riprenderla in altri momenti in quanto è come se occupasse tutto il suo campo percettivo ed emotivo. Per poter effettuare questo “switch” dalla figura allo sfondo sosteniamo i partner a (ri)prendersi alcune responsabilità rispetto alle difficoltà che stanno attraversando. Approfondirò questo passaggio più tardi. Ora faccio un passo indietro. La sovralimentazione della figura è ciò che genera tensione e conflitto. La domanda che ci poniamo è: “A cosa serve a questa coppia l’equilibrio che ha costruito in questo momento?”. Qualsiasi equilibrio, per quanto doloroso e per quanto generi costi molto alti per ciascun partner, ha per la coppia una funzione positiva da comprendere prima di pensare a possibili cambiamenti. Ad esempio, il calo della sessualità che segue la fase dell’innamoramento è utile ai partner per riprendere le fila della propria vita in seguito ad un’esperienza così intensa come quella di entrare/far entrare l’altro nei propri confini. Questo non significa togliere importanza alla sessualità, anzi. Ci serve per accettare le situazioni che contribuiamo a creare, riconoscendo la funzione positiva che assolvono. Per la Psicoterapia della Gestalt, tutti i comportamenti, anche quelli apparentemente più folli, sono mossi da un’intenzionalità e hanno un senso, anche se talvolta non è evidente. Anche il conflitto sta servendo a qualcosa: è importante accoglierlo ed osservarlo con curiosità. Per alcune coppie litigare è l’unico modo in cui riescono a stare insieme; il litigio ha l’importante funzione di tenere uniti i partner; entrambi sentono un’intenzionalità che va nella direzione di crescere insieme - un movimento che, purtroppo, non è affatto semplice o chiaro. Ciò che stanno evitando, sospingendole nello sfondo, sono delle paure specifiche che ciascuno sente, ma non condivide con l’altro (paura di perdersi, di non essere accettato, ecc..). In questo caso il conflitto li tiene uniti, ma il prezzo che pagano è un progressivo deterioramento della loro intimità. Una breve digressione .. Cos’è il conflitto? Col termine conflitto intendiamo la dinamica che si instaura tra due o più persone che confrontano la loro visione di uno stesso spicchio di realtà, osservata però da prospettive diverse. La dinamica del conflitto consiste nel rifiutare, negare o confutare la visione dell’altro in quanto dal mio angolo di visuale risulta inesistente, falsa o errata. La Psicoterapia della Gestalt condivide una visione ‘positiva’ del conflitto poiché ritiene che se entrambe le parti sono sostenute ad esprimere le loro posizioni, a stare attivamente nel confronto, senza ritirarsi prematuramente e ascoltando anche la visione dell’altro, le reciproche posizioni si influenzeranno. L’autoregolazione del campo è un concetto sviluppato negli anni 50/70, un’epoca in cui molte regole sociali ed introietti culturali vengono messi in discussione allo scopo di ritrovare un’esistenza più autentica e vitale. Secondo la visione del campo che si autoregola, nel momento in cui le differenze sono incoraggiate ad esprimersi all’interno di un dialogo, la coppia o il gruppo trova un aggiustamento, cioè una nuova gestalt diversa da quella iniziale. Dalla definizione data di conflitto possiamo evidenziare alcuni punti: · i conflitti svolgono l’importante funzione di mettere in relazione tra loro porzioni diverse di realtà che altrimenti resterebbero sconosciute l’una all’altra · la mancanza di conflitti all’interno di una coppia, un gruppo o un’organizzazione è un segnale che il sistema funziona ad un basso livello di rischio e quindi ad un basso livello di creatività · l’eccesso di conflitti è un segnale delle presenza di conflitti nascosti che non vengono affrontati deviando l’attenzione su una miriade di altri conflitti che spaventano meno e che fanno da cortina fumogena · la presenza di conflitti insolubili segnala l’esistenza di giochi di potere e competitività distruttiva, viene cioè a mancare l’interesse per la visione dell’altro Se si risolve efficacemente un conflitto, entrambe le parti si ritrovano ad essere più ricche, cioè la visione finale su cui entrambe si orientano è diversa e migliore di ognuna delle due visioni di partenza: la coppia nella sua interezza, oltre che i singoli partner, fa un balzo creativo. Imparare ad apprezzare i conflitti e a gestirli correttamente rappresenta un apprendimento fondamentale per le coppie che affrontano un percorso di crescita. QUANDO LO SFONDO DIVENTA FIGURA Abbiamo visto come la coppia arrivi in terapia con una figura irrigidita, che può essere un conflitto, una lotta di potere, o un sintomo (es. mancanza di desiderio). Affinchè tutta l’attenzione sia concentrata sulla tensione irrisolta, la coppia tende a manipolare lo sfondo per far sì che solo quella figura abbia energia e le altre figure tendano a rimanere schiacciate. Esempi di manipolazione li ritroviamo a livello comunicativo quando i partner affrontano la frustrazione parlando dell’altro e non di sé: “TU non mi ascolti, non mi vedi, non mi ami abbastanza, ecc.” , oppure quando rispondono immediatamente: “Sì, MA…” senza lasciarsi davvero influenzare dalla diversità che porta il partner, o con un atteggiamento di disprezzo. Questi sono esempi di un campo fortemente “proiettivo” in cui i partner non riescono a prendersi la “responsabilità” dei propri bisogni, o ferite, ma ognuno tende a concentrare l’attenzione su ciò che fa l’altro che lo fa soffrire, o sull’altro sbagliato, sull’altro che non lo capisce e non è mai come vorrebbe che fosse. Il “paradosso del cambiamento”, che sviluppò Bateson negli anni 50, fa sì che solo quando non abbiamo più bisogno che l’altro cambi… l’altro e la nostra relazione con lui/lei finalmente cambieranno: questo significa il passaggio da un campo di coppia proiettivo ad uno in cui ciascun partner si riappropria della proiezione di cui non era consapevole, prendendosi la responsabilità della propria vita e delle proprie scelte. Il concetto di “responsabilità” è un obiettivo su cui è importante iniziare il lavoro terapeutico fin dall’inizio. Infatti, se da un lato ogni equilibrio presente nella coppia, anche quello problematico, è funzionale a qualcosa (in Gestalt diciamo che è un “adattamento creativo”), allo stesso tempo, quando paghiamo dei costi troppo alti e la crescita è bloccata, è importante cercare nuove strade e opportunità di sostegno per evolvere. Il più delle volte il paziente (o la coppia), infatti, arriva in terapia con una dichiarazione di impotenza: “Sono insoddisfatto della mia vita e non so più cosa fare!”. È difficile e spesso doloroso comprendere in che modo contribuisco a creare le situazioni che poi generano la sofferenza nella mia esistenza. Nella nostra cultura, la parola “responsabilità” è associata all’idea di qualcosa di pesante, difficile, spesso noioso, e che comunque non ha nulla a che vedere con eccitazione e divertimento. Niente di più errato! Come dice etimologicamente la parola: respons-abilità indica l’abilità a rispondere alla situazione che ci troviamo a vivere. Essere in grado di assumersi responsabilità in una determinata situazione significa semplicemente ritenersi in grado di rispondere nella maniera più efficace alle caratteristiche della situazione stessa. Vuol dire anche avere il POTERE di influenzarla in base alla propria preferenza o interesse. Nelle coppie in crisi spesso vediamo uno stato d’animo di profonda frustrazione e rabbia rispetto al fatto di non riuscire ad influenzare o a modificare l’altro come vorrebbe. Recuperare la propria responsabilità, nel lavoro di coppia, vuol dire poter identificare i propri bisogni e insoddisfazioni senza che sia l’altro ad essere sbagliato poiché non riesce a rispondere in maniera adeguata. Il primo passo, dunque, è quello di definire in maniera chiara ciò di cui abbiamo bisogno dalla relazione, ad es. “Ho bisogno di parlare e di essere ascoltato/a”, “Ho bisogno di essere toccato/a”, ecc. Poter ascoltare noi stessi e le nostre necessità è importante innanzitutto per sapere chi siamo e di cosa abbiamo bisogno e integrarlo alla nostra identità. Sapendo chi siamo probabilmente cercheremo nell’ambiente le persone o le situazioni che potranno rispondere alle nostre richieste. Se non attribuiamo più la responsabilità all’altro dei nostri bisogni, ma recuperiamo il nostro potere, allora faremo il possibile per influenzare l’altro parlando di quanto la nostra richiesta è importante per “noi”. Passiamo così dall’ottica del “rimprovero” a quella della libertà. Se l’altro non è disponibile ad ascoltarci o a soddisfarci non siamo impotenti perché abbiamo sempre la possibilità di cercare altrove, rompendo la relazione o trovando soluzioni creative. Per sostenere la coppia ad “alienarsi” dalla figura con cui i partner sono identificati (es. rimprovero, lotta di potere, disprezzo, ecc.) e per fare emergere dallo sfondo nuove figure, è utile introdurre il processo di identificazione e alienazione. Il concetto di “identificazione e alienazione” fa parte della tradizione della Psicoterapia della Gestalt ed è uno strumento di lavoro utile per sostenere il processo di presa di responsabilità. Identificarsi nell’altro vuol dire iniziare ad immaginare che ci possano essere altri punti di vista, esperienze, vissuti diversi dai nostri e poi riuscire ad identificarsi con essi riuscendo ad alienarsi dai propri. E’ un salto nel vuoto in quanto occorre lasciare momentaneamente alle spalle le vecchie sicurezze per inoltrarsi in un territorio nuovo, con risorse diverse che non conosciamo ancora. Per far questo ci sono delle tecniche specifiche, ad esempio l’uso delle sedie in cui chiediamo ai partner di scambiare sedia e “diventare l’altro”. Spesso rimanere attaccati alle proprie identificazioni e non voler incuriosirsi dei vissuti del partner, significa aver bisogno di dimostrare che io ho ragione e l’altro ha torto. Riflette un’intenzionalità succedanea (conflitto di potere) e non un’intenzionalità di contatto. L’intenzionalità succedanea non è un movimento in cui siamo aperti e ricerchiamo il contatto in quanto non sono presenti le tre funzioni del sé, ma solo la funzione io e la funzione personalità. Una posizione del genere non è dialogica, mentre la coppia che arriva in terapia chiede di essere sostenuta a portare avanti il dialogo, l’intenzionalità che i partner vogliono ritrovare è dialogica, anche se poi ciò che mettono in atto è una relazione non dialogica, ma uno scontro di potere. Lavorare sulle identificazioni e alienazioni vuol dire sostenere i partner non più ad agire le loro proiezioni, ma ad identificarsi e assumere la responsabilità delle loro proiezioni. Quando sono in un conflitto di potere agiscono le loro proiezioni accusandosi a vicenda: TU sei così, TU fai così, ecc. Nel momento in cui si riappropriano delle reciproche proiezioni rientrano nel dialogo. Non più: “tu sei così”, ma … “io sento questo”. Invece di parlare dell’altro, ciascuno inizia a parlare di sé e delle proprie ferite/frustrazioni in un modo che non sarà più accusatorio, ma che promuove l’ascolto e il sostegno reciproco. Il livello di aggressività cala notevolmente. Una volta che ciascuno si riappropria della responsabilità di ciò che è e di ciò che sente, la coppia può dialogare sull’eventuale ri-costruzione della relazione, su basi diverse. Per concludere, imparare ad amare le parti dell’altro che ci fanno male e non ci piacciono è un obiettivo centrale nella terapia. Se riusciamo ad amarle la percezione dell’altro e di noi stessi si rinnova; avremo reintegrato le nostre proiezioni sviluppando un atteggiamento compassionevole verso le nostre stesse paure. Questo non vuol dire che smetto di voler cambiare il partner, ma che contemporaneamente posso amarlo così com’è. BIBLIOGRAFIA Bellini B. (2016). Verso una cultura dell’Eros. Psicoterapia e Società . Figure Emergenti n.2 http://www.figuremergenti.it/articolo.php?idArticolo=9872 Pizzimenti M. (2015). Aggressività e sessualità. Il rapporto figura/sfondo tra dolore e piacere. Milano: Franco Angeli. Robine J.M. (2016). La psicoterapia come situazione. Figure Emergenti n.2 http://www.figuremergenti.it/articolo.php?idArticolo=9892 Salonia G. (1992). Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Psicoterapia della Gestalt. Quaderni di Gestalt, V, 8/9: 45-54. Spagnuolo Lobb M. (2011). Il now for next in psicoterapia. La psicoterapia della gestalt raccontata nella società post-moderna. Milano: Franco Angeli. .
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